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PRIUS 
 
Dal passato sospeso affiorano arenate reliquie.
Senza orizzonte, la percezione è immateriale, segreta, mutante.  
Ripete, ritorna in circolare memoria. 
Sale verticalmente sui segni tracciati da lieve colore: improbabile luce che sale dall’occhio, trasmette emozione.
Si accumulano e si sedimentano strati poi interrotti da piccole forme, toni sottili, vacui, eterei, mai perduti: ritrovati ora in forma di fiore, di foglia.
Linfa, calchi, spirali, trame che si cercano e si affermano ripetute, su carte allungate.
 
Scorre lo sguardo nello scarto invisibile del gesto trasmesso sull'altro che osserva...tempo incompiuto: precedenti passaggi, deboli tracce, trame, in eterea sostanza. Umori e veli di luce metallica, plumbea.
 
"Dal cielo nel vero dirama"
Fregi di icone nascosti su carta narrante, sigilli (nella) materia dispersa, qui risaliti dal fondo: è amniotica luce o è terra notturna separata dal vuoto...memoria riflessa dal caso, liberata dal gesto immateriale e incompiuto.
Azione deposta nell'invisibile spazio sospeso. Si attorcigliano in cerchi oblunghi e instabili, sfiorano sistemi d'altri scarabocchi: calchi, graffi, incisioni, residua materia sull'unta matrice.
Cerei colori, matita sottile, lisciati/lasciati, svaniti e tornati come stagioni.
Racconto di un universo poetico “breve", immateriale.  La levità e il mutato riflesso, spazio dell’ombra, dal fondo richiami remoti.
Scorre la lignea venatura interrotta dal nodo, occhio e confine.  
                                  
"In foglia mutante nascosto fluire" 
Scorie e residui di tratti svuotati. “Ritorni nei nidi di segni”, corolle di fiori.
 
Come rugiada, ombra, accarezzi la forma; 
foglia, risorgi perpetua;
nella finestra ammiro la luce,
attimo, velo,
tutto è mutato.

Ospiti alla luce

 

Ho sempre pensato al tuo lavoro come a un esercizio sacro. Incessante e inevitabile.

Il monaco sale all’eremo per il silenzio della preghiera del mattino, e così tu trovi quel tempo. Se la tua pittura fosse una preghiera? Sarebbe un canto, una sillaba, un verso? Un ascolto?

 

È difficile dire se la risposta alla ricerca del proprio lavoro sia costantemente una preghiera. Però, se non è una una preghiera, è sicuramente una specie di mantra esistenziale, in cui l'apparato della propria pittura, costituito dai segni, costituito dalla memoria, costituito anche dalla capacità tecnica, spesso, di saper evocare e immaginare, può scivolare nella preghiera. 

Forse non si può parlare di preghiera, poiché vi è un legame indissolubile con l’interpretazione. Ovvero molto dipende dal proprio interlocutore visivo; ed è molto bello quanto raro il momento in cui l’interlocutore parla del tuo lavoro - e non in merito alle tue esclusive capacità tecniche - ma in merito invece a questa riuscita trasmissione, alla capacità che il tuo lavoro ha di restituire determinati sentimenti, che probabilmente già sono latenti. Sta all’interlocutore riuscire a captarli e a renderli propri., come un incontro. Questo è davvero decisivo per la mia pittura: avverto il bisogno che possa accadere tutti i giorni, diviene indispensabile.

 

La tua pittura è divenuta un rituale per abitare il tempo? O invece la foce inevitabile di un’acqua che ogni giorno segue il proprio corso? Come un desiderio che deve necessariamente compiersi?

 

Si tratta di un desiderio non solo necessario ma è un po' l'ossigeno della mia attività: a volte si fa più costante, più impellente, a volte impone un’attesa da gestire e rispettare. Perché vi sono due momenti, che apparentemente possono sembrare antitetici, e sono stati confusi con l'ispirazione. Non esiste una vera propria ispirazione in ambito artistico. Esiste invece una capacità di intuizione. Ci sono momenti in cui questa capacità di intuizione è più forte, ma non perché coincide con l’ispirazione, ma perché si scoprono delle latenze. Le latenze a volte avvengono in un’intuizione brevissima, come un lampo, a volte invece è necessario che il mio lavoro sia attraversato gradualmente anche dalla tecnica. E questo è quanto mai forte, presente, tanto da rendere il tempo della pittura un tempo a sé.

 

Il tuo studio rappresenta il luogo sacro nel quale ti rechi per praticare la pittura.

La pittura ha una durata? Cosa ti interrompe? Di che luce necessiti?

 

Un ritmo dici tu, un tempo. Sì. 

Di questo aspetto, tra l’altro, ci siamo interrogati con alcuni artisti perché, evidentemente esistono dei tempi biologici differenti della propria elaborazione. Ricordo che un artista mi diceva molto romanticamente che la propria vigilanza artistica era più forte nella notte. Un altro mi diceva che era il pomeriggio. Per me invece è la mattina. Probabilmente perché la mattina funziona come una partenza, una sorta di risveglio: risponde a una capacità fisiologica, sostanzialmente.

 

Quando varchi la soglia dello studio compi dei gesti? La postura che assumi quando dipingi è mutata nel corso del tempo anche rispetto ai diversi lavori? 

 

Non c’è nessuna ritualità nell’accesso allo studio in cui lavoro. 

È cambiata invece la postura: da una postura tipicamente verticale, da qualche anno è divenuta una postura fortemente orizzontale, che necessita tra l'altro anche di un certo spazio, per cui devo uscire dallo studio stesso e invadere gli spazi domestici. Questa idea di postura che si trasforma è molto interessante, perché ciascuno a modo proprio trova una postura ricognitiva. Per me intervenire sull’opera dall'alto diventa come un avvistamento. 

 

Cosa succede in quel tempo, in quella durata? Come si muovono i pensieri durante l’esecuzione? Cercano di risolvere o di precorrere quello che accade o invece si limitano ad un’osservazione di quello che stai facendo? 

 

Non avendo una pittura caratterizzata da una progettualità legata a un bozzetto, non non esiste per me un vero e proprio percorso con un inizio e una fine. Credo che questi momenti continuamente si rincorrano. Inoltre alcune scoperte avvengono direttamente sui materiali e determinano la trama di un’opera. Per esempio la scoperta di un olio che nel momento in cui viene esteso genera una distanza, quando tende ad asciugarsi si dilata. Questo aspetto della dilatazione richiede un’attenzione particolare, quindi spinge l’opera verso una direzione che trova altre soluzioni, ed è un rincorrersi ininterrotto di trasformazioni. 

Devo precisare che è molto importante riuscire a capire quando abbandonare l’opera, o meglio quando abbandonare il finale dell’opera. Ed è difficile avvertire questo istante. Occorre avere un distacco, una specie di taglio del cordone ombelicale, perché altrimenti si continua a elaborare non in meglio, ma rimanendo passivi sull’opera. Spesso questo meccanismo non solo distoglie da una vera e propria finalità dell'opera ma può anche vincolare il processo tecnico e stringerlo verso una sorta di manierismo.

 

L'Alchimista conosce gli elementi, i composti, le addizioni e le reazioni. Allo stesso modo tu familiarizzi quelle pratiche. La pittura impone infatti una comprensione di rispondenza, ovvero occorre aver chiaro come la materia reagisce alle sollecitazioni e alle sperimentazioni. 

Hai scoperte alchimistiche che ritieni di aver perseguito mediante le tue creazioni pittoriche?

 

Lungi da me l'idea di essere un Alchimista!

Credo che di fronte a certe sostanze l’atteggiamento, in effetti,  sia vicino: da una parte un senso di curiosità, specialmente in ambito artistico, e dall'altra un atteggiamento di scoperta, dal momento che non si conosce chimicamente il modo di reagire di queste sostanze, si può solo intuire che abbiano un certo tipo di processo. Solo provando e riprovando si giunge a una prima dimostrazione. Se questa dimostrazione chimica mantiene una coerenza con lo spirito di sensibilità artistica, allora il lavoro rimane autentico, altrimenti credo che valga la pena abbandonare la curiosità fine a se stessa, non ultimo perché l’artista - nell’ambito pittorico - non è oggi uno scienziato e nemmeno uno sperimentatore.

 

La scelta dei materiali, le dimensioni e la struttura dell’opera pare si succedano in periodi. Vi sono delle corrispondenze tra questi periodi? Vi è una linearità ripercorribile? Trovi delle risposte celate in questa successione?

 

Assolutamente sì. Il tempo passa e tutto quello che è il processo tecnico e segnico dei lavori precedenti ritorna. E intendo dei lavori precedenti ancestrali, quasi dell’intera elaborazione della mia ricerca. Faccio l'esempio sul contemporaneo: ho introdotto segni che erano in qualche modo l'iniziazione del mio lavoro. Il segno del cartone ondulato, tanto forte negli esordi della mia ricerca, è riapparso in questi ultimi due o tre anni. Addirittura attingo a dei segni, a dei tratti di sistemi pittorici che trasferisco sulle carte, perché le vedo attraversate da un’unica costante traccia, e legate da una congenialità che si protrae.

A volte, questi segni di cui faccio archeologia diventano delle cerniere, delle cuciture che si mettono insieme. Delle ferite che si aprono e si chiudono, che sono evocazione e memoria.

 

Quando realizzi un’opera parli di processo. È il processo che ti detta, ovvero l’opera avanza in modo autonomo, oppure v’è un progetto in principio che tu detti?

 

Ci sono delle costanti che sono sempre rimaste latenti. Evidentemente non razionalizzate. Quando qualcuno mi domanda a proposito della tecnica pittorica, mi accorgo che queste costanti sopravvivono sia dal punto di vista tecnico, sia dal punto di vista formale, per esempio l'evidenziazione di elementi di rettangolarità. 

Sono sempre state costanti significa che apparvero all’inizio, agli esordi, agli albori del lavoro ma si presentano ancora oggi. Rimangono latenti, inspiegate. Gli elementi di rettangolarità io li definirei come delle finestre - che non sono figure geometriche, ma come delle porte, delle soglie. Dal punto di vista della tecnica, per esercitare certi risultati, un’altra costante è l’assenza del pennello. Vi è invece assidua e forte la presenza di altri strumenti: per esempio la spatola, perché riesce a diventare un gesto, un graffio, così come il motivo della rettangolarità, è un gesto rimasto costante, ancora attuale, continuo, perseverante.

 

Che significato ha la memoria nella tua arte?

 

Prioritario. Direi che la la memoria è un elemento costante, un elemento suggestivo, soprattutto dopo tanti anni a cui vi attingo. 

Questi segni, che sono tracce dell'attimo, continuano a salire, attraverso tutti gli strati sepolti e remoti della memoria. Forse non è un caso che in questi ultimi anni li stia elaborando sulla carta. 

Credo ci sia una felice coincidenza tra la carta e questo segno, che può essere interpretato come una scrittura, una scrittura però non identificata, una scrittura interiore, che proviene da altri segni che sono stati determinati e scoperti grazie all’uso del frottage, e al ritrovamento di questi pizzi, stoffe, centrini. Scarti di stoffe che diventano un alfabeto di segni. Poi, più recentemente, c’è l’aspetto del naturalismo, che si è insinuato in modo prevalente. La memoria non è solo una memoria come individualità, come percorso di una vita, ma invece è una memoria universale, percettiva dei sensi, quindi una memoria della naturalità. 

Trovo sempre più importante questa naturalità - sinonimo di natura. Sono sempre più forti e urgenti le emergenze ambientali che stiamo vivendo, ormai siamo in una zona di pericolo. Forse le tracce di naturalismo mi dicono questo: che non che non diventi una memoria, ma un palesarsi della memoria, un allarme della memoria. 

 

Per alcune ragioni si potrebbe parlare di un montaggio pittorico? Ovvero un’opera che si mostra per strati e ha una densità, una gravità, un’epidermide e una base profonda da cui tutto proviene e sgorga?

 

Direi che questa concettualità era più attinente a un determinato periodo della mia ricerca. Faccio riferimento a questo periodo delle Icone imperfette, che racchiude perfettamente questo discorso delle sovrapposizioni. Ovvero la stratificazione di queste  tele, di questi stracci, di queste reliquie, che continuamente e costantemente vengono tolte e rimesse. 

In questo caso c'è un'idea di congiunzione della memoria diversa rispetto a quella di oggi. V’è una latenza di spiritualità, un’evocazione della spiritualità. 

Non a caso la titolazione Icone imperfette. Poiché sono state immaginate in un progetto dove potessero essere accolte ed esposte all’interno di un monastero, proprio perché - come il monastero - queste opere, in modo incisivo, evocavano. Evocavano come superficie, evocavano come pelle, come racconto. Sono intrise di segni d’evocazione spirituale. 

 

Il poeta non dice ciò che sa il poeta porta ciò che è. La pittura è una poetica, è un modo di raccontare, di rappresentare, è un modo di ascoltare o è un atto generativo? 

 

Direi tutto questo insieme. Ci sono, come nella scrittura poetica anche nella pittura,  modi di dipingere e scrivere che sembrano apparentemente chiusi, perciò diviene necessario scardinarli e scoprirli. 

Deve risiedere anche nell’abilità, nella capacità dell’interlocutore visivo - così come nella capacità dell’interlocutore della lettura - saper cogliere emotivamente e tradurre a modo proprio. La risultante di questo dialogo è cosa rara: non è costante e non è da tutti. Non è naturale che lo sia. Per questo a volte sei poeta, ma sei un poeta o un pittore ermetico. E non perché tu sia ermetico, ma perché questa tua vocazione ad esprimere i tuoi più intimi segni non ha un'immediata traducibilità. 

Bisogna faticare, bisogna sempre faticare. Non esiste, non è mai esistito, salvo rarissime eccezioni, un accesso immediato per innescare questa traducibilità. 

Le scorciatoie nell'arte non esistono. 

Puoi smettere di dipingere? Come riempiresti quel vuoto? 

 

Bella domanda. Una domanda a cui tra l'altro non ho mai pensato. Non vi ho mai pensato perché esercitare la pittura coincide per me a un ossigeno. Dipende. Io credo che si possa e non si possa sospendere la propria pittura. Qualche artista sosteneva di sì. 

 

Ti sei dedicato per lungo tempo ad una pittura devota e slegata da un pubblico e da una critica. Come giudichi questo lasso di tempo? Hai maturato un’attenzione diversa rispetto a quando dipingevi ed esponevi?

 

No, assolutamente. Quando sono riuscito ad esporre è stato comunque grazie alla medesima testardaggine e severa dedizione che ho mantenuto nell’esercizio di pittura. Ho sempre pensato al rigore e alla dedizione come requisiti necessari. Io credo che quando si avverte il bisogno costante di questa tempistica, occorre dedicarle cura, come il monaco che si alza tutte le mattine all’alba, prega, esercita le sue funzioni all'interno del convento, chiude la propria giornata con un'altra preghiera e ricomincia. Probabilmente non è solo il concetto di severità, ma anche il concetto di perseveranza, di continuità, di vocazione. Può essere esercitato da ognuno in modo diverso. Nel mio caso sento il bisogno di questa tempistica, e quando ne sono stato privato, ho faticato, ne ho riscontrato la difficoltà.

 

Cosa provi dopo aver compiuto un'opera? 

 

Non so, ritorno qui al concetto di abbandonare l'opera. Non è mai un vero e proprio abbandono dal momento che le opere successive e quelle precedenti rincorrono e trovano rimandi in ogni esecuzione: funzionano come degli appunti da cui procedere. Diventa interessante quando, unanimemente, senza capire bene il motivo, si riconosce un’opera come distinta, quasi elevata, rispetto alle altre. E non si può spiegare con esattezza il motivo, nemmeno tu che l’hai realizzata. 

È un mistero dell’arte come alcune opere trasudino universalità più di altre.

 

Ti senti maestro? Potresti insegnare la tua pittura? Potresti scriverne? Narrarne?

Non mi sento maestro. Avrei probabilmente anche difficoltà, e non sento questo bisogno di educare gli altri alla somiglianza con il mio lavoro. Si potrebbe considerare una trasmissione orale, ma tutto sommato non mi piacerebbe creare una scuola dei Vettori.

 

Presto o tardi lavorerai con lo specchio e con le riflettenze?

 

L’opera a cui ci si riferisce verrà inserita nel canale San Michele, un corso d’acqua risalente ad epoca medioevale che scorre a piedi della collina del Castello di Torrechiara. Sarà un percorso d’opere artistiche che resteranno nel corso del tempo in questo luogo storico. L’idea dello specchio nasce da un’esigenza materica. La mia opera non dovrà avere una funzione né pittorica, né scultorea. Perciò la soluzione che mi è venuta più naturale, per quanto riguarda il materiale che potesse supportarla, oltre all'indicazione del ferro, che è la cornice grezza che sostiene l’opera, è stato lo specchio, perché lo specchio diventa l'assorbenza dell’ambiente. L’dea dell'assorbenza dell'ambiente e della sua naturalità vive in parallelo con la metamorfosi del luogo in cui l’opera sarà collocata. 

La costante pittorica che io realizzerò sulla superficie sarà come uno scatto definitivo, affermativo. Ma vi sarà anche una superficie vivente e incontrollata, nel momento in cui il supporto sottostante, lo specchio, rifletterà una natura circostante in continua modificazione. Quindi l'idea delle quattro stagioni, l'idea della luce, l'idea di questo ingresso dentro l’opera che non avviene tanto come una riflettenza, ma piuttosto come un’assorbenza. Questo aspetto è molto poetico, indispensabile in quel contesto.

 

Avverti delle intuizioni che ti porteranno a compiere il passaggio a nuovo stile o ancora perdurerai in queste carte rimanendo in questo in questo ciclo?

 

Esiste sempre una percorrenza: tra le opere precedenti talvolta si avverte il sospetto di un cambiamento. Ci sono opere, a volte c'è un’opera che si ha sotto il naso senza accorgersene, che consegna in modo latente delle precise indicazioni. E di questo ho preso consapevolezza sempre a posteriori: all’improvviso si riesce a vedere un’opera come un punto esclamativo.

Non è sempre evidente questa trasparenza. Nel mio caso avviene per passaggi, avviene per gradi. È sempre stato così: per me è necessario avere piccoli segmenti precedenti o grandi segmenti precedenti che mi portano poi alla scelta di cambiamento: diversità di dimensioni, cambiamento della matericità, del supporto, delle tecniche.Ma tutto ciò non avviene mai in modo plateale, definitivo, sempre in modo graduale. Come quasi si esaurisse. Ecco questa è la parola giusta. Come se il processo tecnico di elaborazione precedente avesse subito un esaurimento, che non coincide con il distacco dall’opera, ma con il bisogno di una nuova esperienza. È questa esigenza che conduce al cambiamento.

Inverno 2020, Luca Vettori intervista Alberto Vettori 

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